Userò la sciarpa, funzionerà

Userò la sciarpa, funzionerà

lunedì 13 giugno 2011

9


Quando le coperte che si hanno addosso iniziano ad attaccarsi sopra c'è poco da fare perché da custodia diventano trappola. 
Ad Alberto la luce del giorno riusciva ormai a ferirgli gli occhi. Li sentiva pesanti come i cancelli che li attendevano all'ingresso. Aveva paura che gli stesse accadendo qualcosa, problemi di salute, qualcosa di reale, di vero, perché era strano che, anche se la notte non aveva dormito, girando gli occhi, sentiva ancora dentro qualcosa simile alla sabbia, come ad avere gli occhi feriti da piccoli spilli.
Alberto si chiedeva se la stessa cosa era mai potuta accadere a Tommaso o se gli era accaduta negli ultimi tempi. Infatti avrebbe voluto rispondere alla domanda dell'amico con la sua uguale domanda: ma che hai fatto? E invece, come per tante altre cose, in quella solita pausa pranzo tra il caffè e lo zucchero, non c'era riuscito: si chiedeva le cose, le intuiva e non le esponeva: ma era chiaro che Tommaso, quel giorno, aveva una faccia troppo sciatta, troppo strana per uno che aveva sempre gli occhi straripanti e vitali, indaffarati e vigili come quelli degli animali di fronte alla presenza umana. Pronti a reagire, pronti anche a fuggire.
C'era tempo per i cancelli. Mancava ancora un isolato per raggiungere il posto di lavoro, c'era tempo: Tommaso era stato di poche parole e già questo, di per sé, era il segno di una nottataccia o di una nota cattiva nel cuore.
Alberto approfittò del tempo pigro per fumare un'altra sigaretta, in verità si vergognava di fumarne una dietro l'altra. Arrivò quasi vicino ai cancelli d'ingresso e gli venne spontaneo nasconderla con la mano: l'avesse visto Tommaso cosa avrebbe pensato di lui? Ma sapeva anche che di lì Tommaso non sarebbe mai passato.
Era stanco, semplicemente stanco. Si autogiustificava.
Sostò per un po' sulla panchina del Blasco, chiamata così perché tanto era imbrattata con i vecchi inni dei primi anni '90 (quando era colpa d'Alfredo). Fumava in piedi, con la gamba destra sopra al piano. Lì, tanto, nessuno si sedeva più da almeno dieci anni: era solo una panchina completamente arrugginita e che una volta era stata di quelle verdi, di metallo, lucide, magari utili solo d'estate perché d'inverno si rischiava di rimanere col sedere incollato per sempre, tanta era infelice la reazione del freddo gelido con la carne e con il ferro. Ed era rimasta lì, oramai fuori luogo, superstite di un piccolo e poco convincente parco giochi (lo ricordava) smantellato dopo la costruzione dei nuovi prefabbricati agli inizi del nuovo millennio. Il tabacco gli sembrava strano e le palpebre le sentiva pesantissime. Il pensiero del lavoro imminente gli gravava davvero.
La notte precedente, per molto tempo, era stato tra le lenzuola con gli occhi aperti, immobile, sopportando a fatica il suo stesso corpo tanto che aveva guardato con sgomento le prime luci dell'alba sopraggiungere, per nulla timidamente, da uno spiraglio della finestra.
Era stanco, semplicemente stanco.
Nella notte passata si era sentito come un animale in gabbia, in una recinzione senza nessun conforto. Parecchio era rimasto immobile di fronte al monitor del computer acceso sentendosi svuotato di pensieri come quando si ha un grave senso di colpa addosso. Finché gli occhi gli scesero in basso, verso le orribili mattonelle del pavimento. Erano quelle che aveva scelto sua madre per la sua cameretta quando era bambino, con strani rombi arancioni che inducevano già alla paranoia. Anche lei, in fondo, non era mai stata una persona armoniosa. Allora, dal computer, passò sul letto, nel chiarore sommerso del monitor, e quelle forme piramidali arancioni gli delinearono un pensiero: forse sua madre non l'aveva mai conosciuta veramente, forse l'aveva sempre circoscritta a quelle orribili forme delle mattonelle che aveva scelto per lui. Era stata soltanto una figura schematica e di un brutto colore.
Ora, con gli occhi che gli dolevano, si lasciò andare sulla vecchia panchina, curiosando un po' tra le scritte sbiadite: esse apparivano e avevano lo stesso tono di Domitilla11, una tale della chat. Solo un nick name con una foto, piccola, dal viso imbronciato, gli occhi un po' persi, il capo chino da un lato, con quei capelli ricci svirgolati in aria, le ginocchia scoperte dagli jeans strappati, una maglietta estiva scolorita, un ciondolo di plastica al collo. Era convinto: si trattava di una immagine degli anni '90.
Anche lei non era nulla se non Domitilla11. Si era sempre interrogato sulla sua identità soprattutto quando quei dialoghi della chat, tanto avari di parole, risultavano essere tanto sinceri, quindi reali, come sgorgati d'un getto solo. Non era nulla, eppure con lei riusciva a trovare quel legame artificiale e allo stesso tempo non artificioso e ciò accadeva proprio nei momenti peggiori: quelli della notte, quelli dei pensieri più ombrosi.
Prima di gettarsi tra le lenzuola in prossimità delle luci dell'alba, quel nick name l'aveva aiutato in modo opportuno rispettando i tempi: Domitlla11 era sempre il tempo adeguato e mai quello inopportuno. Aveva trovato, infatti, la lucina verde sullo schermo e il colore indicava la sua presenza, e quel segno, quella figura, era per Alberto come una partenza propizia. Non accadeva sempre di trovarla accesa.
Intanto, in direzione opposta della panchina, un collega barbuto che lavorava con lui salutò simpaticamente.
“Arrivo”, gli rispose Alberto.
Però era proprio la serata partita a male: non aveva trovato in rete ulteriori informazioni sulla salma di Mike. Così, Alberto, cercava giustificazione alla sua insonnia criminale; così aveva iniziato a gironzolare dentro la stanza come una trottola impazzita perché gli mancavano le notizie opportune che cercava. Sapeva che non era quello il modo di cercarle, per carità ma i pensieri gli erano cozzati a tal punto in testa, che per poco non si accese una sigaretta nella stanza di casa oltraggiando il patto preso con la madre, che gli aveva detto, non molti anni prima, che non doveva fumare, che la sigaretta non gli stava bene addosso, che non aveva il modo, insomma, basta che non fai impuzzolentire la casa, scemunito, così gli disse. Quando accadevano certe cose si sentiva come se avesse una trottola in testa, e sapeva che quella corrispondeva all'apice di quei fastidi in testa che Alberto cercava di spiegare senza successo. Tutto significava che era il momento di Domitilla11 perché lei, in quel momento, aveva la lucina verde accesa. Tutto qua. Aveva vagheggiato tutta la notte tra le coperte del letto e le tende della finestra, all'ombra di un soffitto lunare pensando al tempo, ai momenti, ai tempi delle cose e al tempo necessario. E Domitilla11 era opportunamente necessaria.
Per esempio Domitilla11 sapeva di Ellie. Quella immagine elettronica sapeva tutto di lui, era uno specchio dentro lo specchio, si incontravano quando i loro riflessi si incrociavano e rimanevano incrociati anche per ore. Invece, ad esempio, Tommaso di Ellie non sapeva proprio nulla.
Dal letto guardava la lucina verde accesa della chat con la foto minuta dai jeans strappati sulle ginocchia. In fondo anche Ellie era stata solo un nomignolo, il suo vero nome era Teresa ma per Alberto era stata Ellie, qualcosa di dolce, di leggero. Di una leggerezza, però, a forma di nuvola, leggera e che, proprio per questo motivo, riusciva a guardare le cose in verticale, con ironia e con profondità. Ma anche Ellie era stata solo un emblema, una nuvola, appunto. Non l'aveva mai conosciuta: non sapeva chi era Ellie. Forse proprio per questo motivo si era allontanato da lei, bruscamente. E altrettanto bruscamente si era reso conto che aveva passato giorni e giorni con una persona che non era mai riuscito a conoscere.
Dal letto guardava la lucina accesa della chat di Domitilla11, gli aveva detto che si chiamava Giulia. Poi un gradino più in basso si accese una seconda lucina verde: era Tommaso. Si alzò con un battito solo in direzione del monitor: ma giusto il tempo di un paio di click che quella di Tommaso subito si spense.
Dalla panchina il rombo di una macchina lo distrasse un attimo.
Forse Tommaso, la notte passata, gli aveva voluto parlare, una cosa che non era riuscito a fare nella pausa solita del caffè.
Arrivò un secondo rumore, più forte di quello della macchina.
Si stavano chiudendo i cancelli.

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