Userò la sciarpa, funzionerà

Userò la sciarpa, funzionerà

lunedì 24 ottobre 2011

18


Cosa certa è che questa mattina il cielo è bello, la luce obliqua e gialla dell’autunno oramai è arrivata e la città è sempre la stessa. Cambiano solo le vetrine. Ora c’è la collezione autunno inverno, quando poi oramai si indossano, anzi, si portano gli stivali d’estate e i sandali di inverno. Parlo di moda femminile, gli uomini sono rimasti ancora indietro su questo fronte. Sono quasi arrivato. Girando il palazzo vedo già Alberto che se ne sta al sole. È bello il sole in questi giorni. Sembra meno angosciante la vita quando te ne freghi. Sembra.
buongiorno - - buongiorno - - è un abbraccio virilmente vigoroso o devo preoccuparmi? - - sai da quanto è che non ci vediamo? E soprattutto che non ho tue notizie - - scusa se non ti ho mai risposto - - quello sarebbe il minimo. Il fatto è che non hai mai richiamato - - sono stato un po’ impicciato - - ma almeno alle email.... due righe per dirmi che eri vivo potevi scriverle - - e lo so… ma proprio non ero predisposto per comunicare - - ma dove sei stato scusa? A casa tu non c’eri. Ho chiamato anche a casa dei tuoi - - se si deve sparire si deve farlo bene - - io non è che ci trovi molto da ridere. Mi hai fatto preoccupare - - scusa mamma - - stai bene almeno? - - ho passato momenti peggiori, ma anche migliori - - e allora l’eremitaggio a cosa ti è servito? - - quest’anno ti regalo il libro dei perché a Natale. Dai, prendiamo il caffè -
buongiorno Pino - - giorno - - buongiorno ragazzi. Caffettino? - - si, grazie. Uno al… - - uno al vetrino - - si grazie. Si vede proprio che sono terrone. Tu che racconti invece? - - ma, niente. Ho girato un po’ quest’estate. Sono stato anche a Trento - - e che cazzo ci sei andato a fare a Trento? - - ecco a voi ragazzi - - grazie - - un giro - - un giro a Trento… mah… ti posso chiedere un bicchiere d’acqua gentilmente - - eccolo - - grazie - - figurati - - senti, ho quasi messo su un piano - - un piano? E per cosa - - poi ti dirò, ci sto lavorando - - mi fai paura quando fai così - - hai letto la lettera della famiglia di Mike? - - si, ma senza di te non è che mi sia poi più interessato in verità - - capito. E quella tipa in chat la senti ancora? E quella dal vivo invece? - - cosa ridi? - - niente, mi faceva ridere che oramai c’è un vivere virtuale e uno reale. Se ha ancora senso parlare di realtà. Insomma? Mi rispondi? -

lunedì 17 ottobre 2011

17

La prima cosa che faccio appena mi sveglio è vedere che ora sia. Non riesco a ricordare da quando è cominciata questa mia cosa, ma proprio per questo motivo mi pare che da sempre accertarmi di quello che segna l’orologio sia stata la mia prima preoccupazione appena sveglio. Ma per sveglio non intendo la mattina, intendo sempre e comunque. Che sia notte fonda, lo svenire sul divano piuttosto che svegliarmi prima della sveglia al mattino. La seconda cosa che faccio è accendere il cervello. Acceso il cervello è come se non avessi mai dormito. Subito comincio a pensare. A pensare a quello che devo fare di lì a poco, durante la giornata, poi mi torna in mente qualcosa della sera prima, del pomeriggio prima, della mattina prima. E poi di nuovo penso a quello che dovrei fare nel corso della giornata, buoni propositi, cattivi pensieri, cose che magari mi porto dietro da anni e che anche in questa giornata ancora non iniziata, rimetto in una improbabile agenda mai in linea con il GMT. Acceso il cervello penso che tra non molto incontrerò Alberto. Poi un lampo. Mi torna in mente che appena prima di aprire gli occhi stavo sognando. Sognavo di star intrattenendo una conversazione impegnativa con Giancarlo, un ragazzo più grande di me con il quale tanti anni fa uscivo. Era troppa impegnativa. E io con Giancarlo proprio non avevo voglia di parlare. Ma il discorso era veramente impegnativo. Questo mi sorprende spesso nei miei sogni: i discorsi impegnativi che riesco a fare, quegli stessi discorsi che puntualmente da sveglio evito di intrattenere. Per completare l’azione ricordo del sogno, mi appaiono anche un paio di diapositive. Fotogrammi – nel vero senso cinematografico – del sogno. E dopo le diapositive esplicative del caso torno a pensare a oggi. Gli occhi impastati, che pesano, che cercano di proteggersi dalla poca luce che si intrufola nelle persiane. E cercano di proteggersi anche dalla terza cosa che faccio appena sveglio: guardare di nuovo l’orologio. Perché in questo stato di semi coscienza, in questa summit mattutino tra me e il mio cervello, non mi rendo conto di quanto tempo sia passato. La quarta cosa che faccio è stirarmi. Scendo giù nel letto e stiro gambe e braccia. Le braccia in alto però. Facendolo, incrocio le mani e faccio scrocchiare le dita a mo’ di specchio riflesso. Contraggo i muscoli delle gambe. Piedi a martello, ginocchia estroflesse e via a contrarre. Alla coscia destra puntualmente sento nascere un crampo. E allora mollo. Ha ragione lei, dopo tutte quelle che ha passato, non mi sono mai preoccupato di recuperarla appieno. Me lo merito. La quinta cosa che faccio è prendere coraggio. Prendere coraggio perché, a un certo punto della giornata, potrei sempre pensare “ma chi cazzo me l’ha fatto fare ad alzarmi oggi”. È un pensiero che può capitare. E capita spesso. La sesta cosa è alzarmi. Copro la distanza che c’è tra la camera da letto e il bagno con un deambulare poco elegante. Immagino i primi ominidi che provavano a camminare eretti e immagino anche Frankenstein che muove i suoi primi – o sarebbe meglio dire secondi? – passi nello stupore di uno straordinario Marty Feldman. Le cose a seguire che faccio in bagno sarebbero poco eleganti da riportare. Ma il pensiero di vedere Alberto invece lo porto con me in bagno. So che mi chiederà. E che dovrò anche rispondere. Ma non ne ho assolutamente voglia. Alberto è la tipica persona che vuole spiegazioni. Alberto è la tipica persona che cerca motivazioni, i perché delle cose. Io queste risposte non ce l’ho. Lo specchio dice che il tempo passa. E io non sarò mai pronto. Per vestirmi invece sì, sono pronto. Il progetto metodico, e spesso tutt’altro che di facile attuazione, di vestirsi a cipolla in determinati periodi dell’anno è catastrofico per il mio equilibrio mentale. Ma, fregandomene altamente dell’accostamento dei colori, dell’ultimo prêt-à-porter e di quello che potrebbe pensare la mia ex, mi vesto e mi avvio. Se ci fosse il fantomatico narratore onnisciente, considererebbe che il mio farmi una sigaretta mentre cammino potrebbe avere un qualcosa di westerniano e invece cammino così solo per non perdermi per strada tabacco, porta tabacco e pantaloni. Lo stesso narratore direbbe che l’esitare un attimo nell’avanzare per accendermi la sigaretta potrebbe ricordare i migliori film degli anni passati quando in tutti i film si fumavano sigarette in ogni dove in quantità esagerate. Si soffermerebbe nel modo in cui schermo la fiamma per dare fuoco alla punta della sigaretta fatta in casa. Direbbe che il proteggerla, non solo con la mano, ma con quasi tutto il corpo, sembra più un gesto d’amore che un continuare verso un tumore ai polmoni. E sempre lo stesso narratore direbbe che il fumo che fa capolino tra bocca e naso è un po’ come i pensieri del nostro. Ma diciamoci la verità: come fa questo benedetto narratore onnisciente a sapere tutti i cazzi miei? Certo, è onnisciente e quindi può. Ma va be', questo non so proprio come mi sia venuto in mente.

lunedì 10 ottobre 2011

16


Da due anni soggiornava in quella stanza non molto distante dal centro, ariosa, con un balcone. Ai primi giorni credeva un po' alle favole: in tal senso aveva acquistato dei fiori, di quelli che vendono all'ingresso dei supermercati, che se uno ha voglia di comprare tutto li compra appena entra perché li vendono a due soldi e se invece uno è squattrinato e ha fatto il giro del supermercato e ne è uscito deluso, li acquista ugualmente (posizioni strategiche). L'idea favolosa, di abbellire di colori il balcone con i fiori, le era saltata in mente appena aveva messo piede in quella stanza. Forse perché era stato un giorno di pioggia e la camera era assai spoglia. E comunque li acquistò.
Una favola che si concluse molto presto. Dopo un po' di giorni i fiori seccarono tutti.
Troppo sole, troppa acqua, cure non regolari, chissà, e tutto andò a male. Non credeva ad una vita da favola e che potesse nascere dal nulla, tutto qui, e non credeva nemmeno alla morale in genere. Eppure per questa cosa ci piangeva dentro: ci pensava, a volte, al fatto che non era brava a tessere le cose.
Si trovava alla stazione dei treni, Giulia, con il pc aperto sulle ginocchia. Ferma con il cursore lampeggiante sul log in del suo account.
Ma nelle stazioni c'è poco da passare tempo, queste sono fatte per le attese e basta. C'erano momenti di rumore assordante e altri momenti di spontaneo silenzio in quel posto, un po' come il dialogo che aveva avuto con il Certoalberto, così lo aveva soprannominato nei suoi pensieri. Le sue parole, per quanto semplici, l'avevano colpita, più che altro, per il contesto a cui erano riferite. E si riferivano, in fondo, ad una favola.
Alberto era riuscito a trasmetterle quella sensazione che aveva sentito il primo giorno che era entrata nella sua nuova stanza; era riuscito a farle risuonare qualche armonico nascosto nella sua vita; era una persona che le aveva donato di nuovo non tanto la curiosità per le cose ma la meraviglia per le cose quando, da due anni, era semplicemente stanca delle novità. E poi, spesso, non era riuscita a trovare, in quel dialogo, le risposte alle sue domande. Un fatto che non le accadeva più da quando era stata una bambina.
In verità, confessava a se stessa che aveva una grande voglia di incontrare Alberto. Per la prima volta, da tempo, aveva come la sensazione di tradire quell'apatico moroso di Luca: l'avesse mai omaggiata con un fiore. Sempre con quei giornali sotto il braccio e con il colletto tutto attillato. Non aveva mai capito se li leggesse o no o se gli dava solo piacere di avere incollato addosso il nome di quel quotidiano. L'Unità, appunto, senza essere in grado di unirsi veramente ad una persona.
Di fronte a quelle rotaie dei treni le scappò un sorriso involontario. Forse non era stata colpa sua l'essere incapace di tessere la vita ma era stato il contesto, tutto.
Mentre era andata alla stazione col taxi, non aveva capito perché, le aveva fatto uno strano effetto notare un uomo sui trent'anni o un ragazzo cresciuto, che dir si voglia, con la maglietta dei Verdena (che fosse stato lui, Alberto, il Certoalberto) che cantavano di un malessere adolescenziale senza età anagrafica.
Giulia guardava davanti a sé: “Tavolini che sembrano aspettare altra gente, un altro momento”.